Don Pietro, prete da 68 anni!
Il 27 giugno 1948 don Pietro diventava prete. Benediciamo il Signore per il suo prezioso servizio alla Chiesa e alla nostra comunità e rileggiamo questa intervista, rilasciata qualche anno fa a L’Ancora online.
Don Pietro, ci racconti in quale ambiente ha preso vita la sua vocazione; lei ha sempre saputo che avrebbe fatto il sacerdote?
Cominciai a fare il chierichetto a 6 anni, vivendo in un ambiente molto diverso da quello che è oggi. Dopo la quinta elementare desiderai entrare in seminario ma i miei genitori, molto poveri, non poterono mantenermi in quello diocesano. Andai allora a Roma dai Paolini e lì frequentai fino al quinto ginnasio, poiché nel ‘40 scoppiò la guerra; tornai in vacanza a casa e i miei genitori non vollero che facessi ritorno a Roma perché avevano paura. Venne il padre spirituale da Roma a convincere i miei genitori a farmi tornare da loro, ma poi andai nel seminario di Fermo, dove frequentai il liceo e i primi due anni di teologia; gli ultimi due anni li feci a Fano, perché il seminario di Fermo venne chiuso per la guerra. Nel 1948 fui ordinato sacerdote nel mio paese, Acquaviva, dall’allora vescovo mons. Pietro Ossola; sono forse l’unico sacerdote rimasto ordinato dal monsignore.
La sua famiglia l’ha sostenuta nella sua attività di sacerdote?
Mia madre non era tanto contenta, mio padre non se ne curava molto.
I suoi genitori la educavano alla religione?
Sì, mia mamma era tutta casa e chiesa! Si adoperava volentieri per aiutare chiunque, specialmente i malati. Non fu molto contenta della mia vocazione perché ero l’unico figlio maschio e voleva che portassi avanti il cognome della famiglia. Ho due sorelle, di cui una morì prestissimo, a 11 mesi. L’altra invece sta ancora con me, 93 anni finiti da pochi giorni, ma è malata.
Un ricordo bello che ha della sua famiglia?
Ho ricordi dolcissimi di mia madre, che mi ha accompagnato sempre, fino al momento della morte; mio padre invece morì presto, dopo 3 anni che fui ordinato sacerdote, a causa di un’embolia polmonare.
Divenuto sacerdote in quali parrocchie si è fermato?
I primi cinque anni andai a Porto d’Ascoli con don Marino Ciarrocchi, di due anni più giovane di me: mi trovai molto bene, mi sentii accolto dai ragazzi e con loro formai un bel gruppo di giovani, di cui tre o quattro andarono in seminario ma non continuarono il cammino. Subito dopo, nel ’53 fui mandato parroco a Ripatransone nella parrocchia di San Michele Arcangelo e lì rimasi diciotto anni; ebbi diversi incarichi dal vescovo Radicioni: il cinema parrocchiale, il circolo Acli e fui aiutante del presidente della Pontificia Opera di Assistenza, che si occupava dell’assistenza alle parrocchie, in particolar modo delle colonie estive. Ho lavorato per più di 20 anni alle colonie, a San Benedetto, a Grottammare e a Ripatransone e ho organizzato diversi campeggi a Foce di Montemonaco. Dopo diciotto anni mons. Radicioni mi ha mandato parroco qui a San Martino dove sono rimasto ventisette anni, senza casa: ho dovuto usare la chiesa per tutto, per il catechismo, per gli incontri.
Qui non c’erano locali?
No, costruimmo la casa dal niente e nel 1983, l’ultimo anno di permanenza del vescovo in diocesi, egli venne a celebrare qui la cresima nel giorno in cui inaugurammo la casa parrocchiale, che io non ho mai abitato perché la diedi ad una famiglia bisognosa che ci abitò per tredici anni, gratuitamente.
Nel frattempo lei dove risiedeva?
Io ho abitato a casa di mia sorella in zona Ascolani a Grottammare.
C’è qualcosa della sua attività che cambierebbe?
No, mi sono sempre adoperato molto e sono felice di questo. A San martino ho creato io la parrocchia e al mio arrivo contava mille anime; dopo 27 anni di servizio, l’ho lasciata a tremila persone. Dovetti fare di tutto e quando arrivai fui accolto non molto bene dalle persone; ricordo che il giorno della presa di possesso c’erano poche persone alla celebrazione: sia perché la cerimonia non venne organizzata, sia perché aspettavano la nomina di un altro parroco e perché quel giorno c’era un matrimonio importante di una persona conosciuta qui a Grottammare. Ma io non ci rimasi male e approfittai del periodo pasquale per cominciare a incontrare le famiglie della parrocchia con la benedizione delle famiglie e devo dire che fui accolto in tutte; capii allora che c’era molto su cui lavorare ma che ci sarebbero stati anche buoni frutti. Vedevo sempre più gente alla messa della domenica e dato che c’era una messa sola ne misi subito un’altra e un’altra ancora, fino a quando non diventarono quattro. La gente mi aiutava anche nelle spese della parrocchia e durante le giornate missionarie, universitarie, ecc. raccoglievo 3-4 milioni ogni messa, eravamo una delle parrocchie che dava di più in diocesi. Poi quando ho avuto la casa parrocchiale, le aule al piano terreno le usavo per le riunioni, il catechismo, e l’appartamento al piano sopra l’ho dato a quella famiglia povera.
Lei di iniziative ne ha fatte parecchie.
Sì, ho cercato di seguire sia i giovani che le famiglie, che ho aiutato pagando gli affitti, le bollette, perfino la cassa da morto; sentivo che dovevo aiutarli. Le altre famiglie erano tutte piuttosto benestanti, solo coloro che non erano di qui avevano bisogno di un aiuto, specialmente gli zingari.
Il rapporto con i parrocchiani è cambiato rispetto a prima?
Beh, è molto tempo che non vivo più a stretto contatto con le persone, perciò molta gente che è venuta da fuori non la conosco nemmeno.
Quale è una sua qualità?
Sono generoso e aiuto chi ha più bisogno: faccio sia beneficenza materiale, perché quando posso dono parte della mia pensione, sia beneficenza spirituale, perché una parola buona o un consiglio lo regalo a chiunque.